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Cibo e cultura: 7 piatti o ingredienti foodcultural

Come ricordarsi che cibo è cultura? Domanda apparentemente semplice. C’è chi pensa a un piatto, chi a un ingrediente. A ciascuno la sua opinione. Io viaggio molto e cerco sempre di capire i luoghi che visito passeggiando senza meta, mangiando i piatti della cucina tradizionale o rivisitata in modo intelligente e ascoltando i racconti dei contadini o degli allevatori. Ecco allora 7 piatti o ingredienti foodcultural che mi hanno incuriosito percorrendo l’Italia dalla Puglia alla Romagna, dalla Tuscia all’Emilia fino alla Calabria.

7 piatti o ingredienti foodcultural

Ciambotta…l’amour per il pesce!

ciambotta 7 piatti foodculturalDove l’ho mangiata: a Manfredonia presso il ristorante Coppola Rossa.

È il piatto sipontino più amato dai turisti. Una zuppa di pesce fatta con diversi tipi di pescato: scorfano, testone, coda di rospo o pesce Sanpietro, sbarro, trancia di dentice, gronco, calamaretti. Durante la cottura si unisce aglio, cipolla, pomodori, prezzemolo, basilico. Alla fine si aggiungono crostini di pane.

Il nome risalirebbe al periodo della II Guerra Mondiale, quando le truppe americane erano di stanza nel nord della Puglia. Il termine jam-boat potrebbe essere stato inventato per dare l’idea di una marmellata di mare fatta dai pescatori con pesci piccoli non destinati alla vendita. Un piatto povero che, come tanti piatti nati da scarti o avanzi, non prevede una ricetta codificata.

Tagliatelle alla romagnola…l’allegria in tavola!

7 piatti o ingredienti foodcultural

Dove le ho mangiate: a Bellaria cucinate da Frida, una vera azdora.

Ma chi è la azdora? La regina della casa. In romagnolo azdora significa reggitrice. Attenzione, dunque, a non commettere errori: non si tratta della cuoca, ma della vera padrona della cucina.

La tradizione la raffigura con un fazzoletto in testa per raccogliere i capelli, le mani sporche di farina e con l’immancabile grembiule. “Quand che l’arzdôra la va ala campâgna la perd piò che la ‘n guadâgna.”
(Quando la massaia va a lavorare nei campi perde di più di quello che guadagna). Perchè? Semplice: chi cucinava, amministrava anche la vita familiare.

Sicuramente cucinava e cucina le tagliatelle alla romagnola, una specialità che ha regole precise. Assolutamente vietato l’utilizzo delle macchinette che le fanno troppo lisce, incapaci di assorbire il sugo. Un altro divieto? Condirle con qualsiasi sugo a disposizione.

Per farle a regola d’arte? Munirsi di mattarello, spianatoia, un coltello a punta quadra, pentola, scolapasta e zuppiera. Gli ingredienti sono semplici: farina, acqua e sale. Per impastare si usano solo le mani. Per i sughi il più tradizionale è il ragù di carne, macinato di carne bovina, fatto con carne di manzo magra, pomodori passati, sale e pepe, su una buona base di soffritto. Si accetta l’aggiunta di macinato di carne suina. La cottura del ragù è lenta: si devono prevedere almeno due ore.

Una curiosità? Le tagliatelle al ragù sono state strenuamente difese dal sindaco di Bologna Virginio Merola. Stufo di sentire parlare degli spaghetti alla bolognese, ha ricordato che questo piatto non esiste, è una fake news, un falso culturale. Gli spaghetti alla bolognese sono un’invenzione del marketing.

Se vogliamo essere pignoli dobbiamo ricordare che Bologna fino al 1859 faceva parte dello Stato Pontificio. Per rispettare le regole alimentari imposte dalla Chiesa, quando vigeva il divieto di mangiare carne, la si sostituiva con il pesce, in particolare il tonno. Un piatto facile da fare erano gli spaghetti conditi con pomodoro, tonno e acciuga. Ecco l’origine degli spaghetti alla bolognese, ben diversi dalle tagliatelle con il ragù!

Aglio rosso…la salute in uno spicchio!

7 piatti o ingredienti foodcultural

Dove l’ho mangiato: a Proceno, nella Tuscia presso Marcella Santoni, titolare dell’Azienda Agricola La Treccia.

L’aglio rosso, con una pellicola esterna tendente al rosso, ha un sapore forte, tendente al piccante. É l’aglio che “si arribisce”, che si arrabbia – e tantio-  se non trova il terreno asciutto. Un terreno che non deve essere mai bagnato, se si vuole evitare che non cresca o cresca male.

Importante è preparare la semina: dopo aver ottenuto i bulbilli, aprendo le teste, si selezionano i migliori, ovvero i più grandi e regolari.

Alcuni produttori preparano ancora la cenere per metterla nel solco in cui sarà piantato l’aglio rosso. La pianta è messa a distanza di un palmo l’una dall’altra, facendo in modo che la parte appuntita sia rivolta verso l’alto.

Quando l’aglio cresce vanno estirpate le piante infestanti. Si elimina poi il tarlo per evitare che cresca troppo la parte verde che impedirebbe al bulbo di ingrossarsi. Raccolto tra giugno e luglio, viene conservato formando trecce, composta da 30 teste.

Caciocavallo a due teste…contro ogni craving!

7 piatti o ingredienti foodcultural

Dove l’ho mangiato: a Ciminà, nella Locride, presso il caseificio Anna Romano.

Il caciocavallo è un formaggio prodotto in tutta la Calabria, ma nella Locride, a Ciminà, ne ho assaggiato a due teste! Nella città dal kyminà, ovvero del cumino, sono andata a visitare il caseificio di Anna Romano, che, con il figlio Domenico, lo produce con caglio di capretto e latte crudo prodotto da 110 bovini, 400 fra ovini e caprini alimentati in modo biologico. La cagliata è rotta con rami di ulivo e ricomposta manualmente. Buttata in acqua bollente,  quando inizia a filare, viene lavorata fino a ottenere la caratteristica forma ovale o tronco conica con le due “teste”. Salate, sono messe a riposare. Dopo qualche ora si inizia la stagionatura, nel classico sistema “a calalcioni”.

Il formaggio dei Romano ha una crosta bianco giallognola, la pasta bianca, e rivela un sapore piacevolmente piccante con sentori erbacei. Da provare!

Pisareì e fasò…per superare ogni fatica di Sisifo!

7 piatti o ingredienti foodcultural: pisarei
Dove li ho mangiati: a Podere Illica a Castell’Arquato.

Sono i golosissimi gnocchetti di pane raffermo e farina, simbolo della cucina piacentina. La farina era tagliata con il pane raffermo per risparmiare nell’utilizzo dell’ingrediente più costoso. Lo stesso sugo era “al risparmio”. Si usava ciò che rimaneva della macellazione del maiale: cotiche, salsicce, lardo.

Un piatto povero, ma reso gustoso dalla presenza della pestata di lardo (pistà ‘d grass) e dei fagioli borlotti o, per alcuni, cannellini. La tradizione imponeva di fare cuocere il pane secco in acqua fino al completo spappolamento. La forma è quella di uno gnocchetto piccolo da sommergere completamente nel sugo. Mi raccomando: abbondante!

L’origine del nome del piatto? Controversa. Pisareì potrebbe essere la storpiatura della parola piacentina bissa, ovvero biscia. Richiamerebbe la forma della pasta prima di essere tagliata. Ma c’è chi sostiene la derivazione dalla parola spagnola pisar, ovvero pestare. I gnocchetti, in effetti, vanno schiacciati sotto le dita per ottenere la forma tradizionale. Un consiglio? Gustateli con un buon bicchiere di Gutturnio.

Suino nero dell’Aspromonte…il maiale che fa bene!

7 piatti o ingredienti foodcultural

Dove l’ ho mangiato: presso l’azienda di Fortunato Sollazzo nei pressi di Gerace.

Si dice ovunque: del maiale non si butta via niente. Soprattutto se è un suino nero dell’Aspromonte, razza rustica dal mantello nero, allevato in maniera semibrada e nutrito in modo naturale. Un suino che era in via di estinzione e che ora si sta recuperando.

Ottima la pancetta, dal sapore morbido, con grasso consistente, così come  la soppressata in cui si sente il sapore gradevole del pepe nero esaltato dal sapore della carne. Il prosciutto al taglio presenta un colore rosa vivo con tendenza al granato e riflessi purpurei. Ha una persistenza aromatica intensa che tende a morbidezza, rotondità e sapidità. La salsiccia presenta una grana media con grasso ben distribuito, mentre il guanciale ha un sapore  morbido, con un grasso consistente e speziato.

Giardiniera…la vera proposta green!

7 piatti o ingredienti foodcultural: la giardiniera

Dove l’ho mangiata: presso la Giardiniera di Morgan e l’agriturismo L’Agronauta a Piozzano, in provincia di Piacenza.

La giardiniera ha origini antichissime, affonda le sue radici nella vita contadina. D’estate i contadini raccoglievano le verdure, all’apice della loro maturazione, e le si conservavano, in genere usando olio, aceto o alcol per consumarle durante i freddi inverni.

Carote, sedano, l’infiorescenza di cavolfiori, cipolline, peperoni, cetriolini e capperi, erano le verdure generalmente utilizzate. Esistono diverse ricette, con alcune varianti che prevedono l’utilizzo del tonno o delle uova.

Per alcuni è stata la soluzione per risolvere i problemi di conservazione, per altri il tentativo di fermare il tempo, di dare vita a un tempo senza stagioni. Un modo per raccontare il sogno di unire cultura e natura. Non manca chi sottolinea una nobile origine. Caterina de Medici, insoddisfatta della cucina francese, chiamò a corte cuochi italiani per la preparazione di ricette ghiotte. E così arrivò anche la giardiniera!

É una proposta davvero italiana. In Piemonte fa parte dell’antipasto alla piemontese; in Emilia accompagna salumi, formaggi, gnocco fritto e tigelle, ma anche arrosti e lessi; in Friuli  si abbina alla  soppressa friulana; in Toscana con i crostini ai fegatini e la finocchiona; a Napoli l’insalata di rinforzo a Natale, con l’aggiuntadel cavolfiore stufato, acciughe, capperi, olive nere.

Ecco i nostri 7 piatti o ingredienti foodcultural, volete segnalarci i vostri?

Photo Credit: Giorgio Bertuzzi  (pisareì e giardiniera)

 

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Written by Monica Viani

Vivo a Milano, frequento librerie, musei, cinema, teatri e ...ristoranti! Laureata in filosofia, ex insegnante di materie umanistiche nei licei classici e scientifici milanesi, sono approdata nel 1998 al giornalismo enogastronomico. Dopo aver coordinato diverse riviste tecniche, aver dato vita a una collana e curato diversi libri, nel 2017 ho deciso con Alessandra Cioccarelli di fondare il blog Famelici, un blog "di frontiera", dove declinare il cibo in mille modi. Io e Ale scriviamo di cibo, rimandando a Marx, a Freud, a Nietzsche, ai futuristi, perché crediamo che il cibo sia cultura. Perché lo facciamo? Per dimostrare che si può parlare di food rifuggendo dalle banalità. Stay hungry, stay foolish!

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