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Orgo(g)lio sardo: 5 motivi per conoscere una Sardegna diversa

Sardegna diversa. C’è stato un viaggio motivato da un premio oleario – il Montiferru – come ascolto di voci, esplorazione di gusti, gusto di luoghi, luogo di suoni, suono di pensieri. Cuciti da un filo particolare: un filo d’olio. Cibo è cultura, è pensiero filosofico. Come già scritto da Hegel e Marx non può esserci un passaggio da natura a cultura senza l’elaborazione di un  pensiero capace di trasformarsi in azione. E chi produce vino o olio porta avanti un discorso millenario con le piante.

Condividiamo così, in modalità Doppiamente Famelici con Daniela in tondo e Monica in corsivo, 5 motivi per guardare alla Sardegna, non solo sulla costa e non solo in estate, ma dappertutto e in qualsiasi stagione.

Sardegna diversa

Quando la storia riemerge dalla terra

Sessant’anni fa veniva pubblicato “Sardegna. Quasi un continente”, un libro di Marcello Serra, dove attraverso ottocento fotografie a colori era raccontata l’isola e la sua cultura.

La Sardegna è quasi un continente, eppure è un’isola. Una terra che deve evitare di essere privata del proprio “Genius loci”. Quando cultura e  tradizione si mescolano talvolta danno vita a quel folklore che non rappresenta l’anima di un luogo. La Sardegna non è folklore, i luoghi hanno un’anima e il nostro compito è scoprirla. Un luogo non è mai solo “quel luogo”. É il nostro incontro con una cultura, il nostro “contaminarci”. 

Sardegna diversa: i giganri di Monte Prama

“ I giganti di Mont’e Prama” lo dimostrano. Tutto ha inizio iniziato quando nel 1974, in località Monte Prama, nelle campagne  di Cabras, a un contadino finisce sotto la lama dell’aratro l’enorme testa di pietra di un arciere. Nel 1979 iniziano gli scavi. Si trovano 30 statue alte 2 metri, che raffigurano arcieri e pugilatori, datate probabilmente VIII secolo. Sculture strane: gli occhi sono dischi solari, la bocca è inesistente. Richiamano nell’abbigliamento e nell’acconciatura i bronzetti di Serri, risalenti alla civiltà nuragica degli Shardana. Sorge spontanea una domanda: come e quando nasce la civiltà sarda? C’è ancore molto da scavare…

Una Sardegna diversa: il gusto. Cibo locale, con l’olio locale

sardegna diversa

L’olio e il pane – sul pane, dentro il pane. L’olio e la fregula. L’olio e i malloreddus. L’olio e i culurgiones. L’olio e le paste ripiene. L’olio e le verdure. L’olio e la burrida di gattuccio, ricca, rossa. L’olio e il mare. L’olio e la selvaggina. L’olio e il maialetto. Cibi austeri, olio che non si spreca. Ma quanta bontà.

Cosa sarebbe l’olio senza il pane? E in Sardegna è pane carasau, carasatu, pane ‘e fresa o anche carta da musica. Il nome richiama il rumore che produce quando viene mangiato o la sua somiglianza alla carta su cui venivano scritte le note per la musica sacra? Un’altra interpretazione si rifà all’ etimologia: in dialetto “sa cara” è la faccia, carasau significherebbe “affacciato”. La sfoglia è “affacciata” nel forno per pochi secondi fino al momento in cui, dopo che si è gonfiata, è velocemente tolta dal forno per essere divisa col coltello in due parti.

Originario della Barbagia, c’è chi lo fa risalire all’età del bronzo, periodo a cui corrisponde la civiltà nuragica. 

sardegna diversa: pane carasau É un pane legato al mondo della pastorizia. I pastori, dopo averlo imbevuto di acqua, lo potevano mangiare dopo lungo tempo, mentre accompagnavano al pascolo le greggi.

Gli ingredienti sono farina di grano duro, lievito, sale e acqua. I due tipi principali di impasto sono uno a base di fior di farina di grano duro -consumato dalle famiglie più ricche, l’altro a base di farina d’orzo o cruschello, di colore scuro, consumato dai meno agiati.

Fare il pane era un rito familiare, che coinvolgeva almeno tre donne, spesso di vicinato. Fare il pane permetteva anche la socializzazione!

S’inthurta è la prima fase della lavorazione e avviene prima del sorgere del sole. Il lievito precedentemente sciolto in acqua tiepida è mescolato alla farina passata al setaccio (sedattu) e impastata dentro una madia di legno chiamata iscivu, lacu, lachedda, o dentro una conca di terracotta (tianu, impastera). L’impasto è lavorato energicamente sul tavolo (sa mesa pro su pane, sa mesitta). La pasta fresca è schiacciata, allargata con la pressione dei pugni e riavvolta su stessa, con l’aggiunta di acqua è manipolata con energia (ammoddihare) per ottenere un impasto liscio. In questa fase spesso gli uomini aiutano le donne.

La fase della lievitazione si chiama pesare (alzare). La pasta lavorata è posta in speciali contenitori come conche di terracotta o come in Barbagia dentro il malune di sughero, ricoperta con teli di lana. Si fa riposare l’impasto. Iniziata la lievitazione, si divide l’insieme dell’impasto in pezzi regolari (sestare, orire) che sono arrotondati, infarinati e riposti in canestri (sas horves,canistreddas) avvolti tra le pieghe di teli di lana o di lino per farli riposare (pasare) ancora in modo da far giungere a termine la lievitazione.

Durante la fase dell’illadare, la pasta lievitata si lavora con dei mattarelli in legno (canneddos, cannones) e mediante i polpastrelli delle mani, infarinandola in continuazione, appiattendola e allargandola a formare dei dischi (sas tundas) dal diametro variabile. A questo punto si mettono sulle pieghe di speciali panni di lana detti pannos de ispica o tiara, panni lunghi anche dieci metri e larghi 50 cm. Vengono tenuti arrotolati, ma quando si usano si srotolano prima verso destra per un tratto di 50 cm, e – una volta messa la sfoglia sferica (sa tunda) – verso sinistra, a coprirla completamente, facendo depositarne un’altra sulla parte superiore della piega, e così via in un susseguirsi di piegature fino al completo srotolamento. Vengono poi messi da parte e coperti con delle coperte.

Ogni pannu de ispica o tiaza, a secondo della sua lunghezza, può contenere fino a venti tundas che sono in questo modo trasportabili. Per il forno si utilizza il legno di quercia o di olivastro. Dopo l’accensione del fuoco (inchendya de su forru), il forno arriva a una temperatura (temperare su furru) stabile di 450-500°. Il pane è messo a cuocere dopo che le braci sono state spinte da una parte con una paletta in ferro (palitta ‘e furru) e la pavimentazione del forno spazzata con una scopa speciale (iscovulos, ishopiles).

Sardegna diversa: pane carasau, simbolo della cultura gastronomica dell'isola

Così inizia la fase della prima cottura. Da una tiazza è prelevata una tunda e con una pala in legno dalla forma arrotondata chiamata pala ‘e linna o pala lada, messa in forno. Il forte calore rigonfia la foglia, formando una palla. L’aria al suo interno inizia ad espandersi, determinando la separazione dei due strati. A seconda delle tradizioni locali la si rivolta o meno, e vi si appoggia delicatamente la pala in legno per favorire l’omogeneità del rigonfiamento spingendo il vapore verso quelle parti non ancora staccate. Non sempre il rigonfiamento è uniforme. Sfornato il disco di pasta, le due facce ormai distaccate sono separate (carpire, calpire o fresare) con il coltello, rapidamente, prima che l’aria defluisca da qualche fessura e la sfoglia si afflosci per il raffreddamento. Il sa fresadora sta molto attento perché la sfoglia è molto calda ed emana vapore; afflosciandosi può capitare che le due parti (sos pizos) si riattacchino. I dischi (sos duos pizos) hanno una faccia liscia ed una ruvida.

Il pane della prima cottura e separato in due sottili strati viene chiamato pane lentu, pane modde o pane cruhu, ed ha la caratteristica di essere abbastanza elastico da non spezzarsi facilmente, tanto da poter essere piegato o arrotolato, caratteristica che riacquisterà dopo la carasatura solo con immersione in acqua.

Può essere consumato anche subito ma a differenza del carasau non ha una lunga conservazione. Dopo la separazione, sos pizos sono impilati in cesti e quando tutte le tundas verranno cotte si passa alla fase successiva. Con la prima cottura, di solito nel primo pomeriggio,si procede alla seconda infornata. I Sos pizos sono rimessi dentro il forno per la cottura finale (sa carasadura). Le sfoglie sono lasciate nel forno per un tempo variabile; di solito quelle che presentano un colore più scuro sono le più tostate.

Tolti dal forno, sono impilati (piras de pane) in grossi cesti di asfodelo (isportas), alti fino a un metro. Avvolti in speciali panni sono sistemati con sulla sommità un peso, di solito un’asse in legno di forma rotonda o dei panni in modo da pressare le sfoglie. Ma torniamo all’olio…

Oliva bosana, nera di Oliena, semidana … impariamo i nomi delle olive isolane. Nomi che cambiano di zona in zona. Nomi da mordere e molire. E i nomi degli oli? Alcune loro voci? In un articolo dedicato, sempre qui su Famelici.

I luoghi. La Sardegna olivetata

Carta degli oliveti Sardegna
In questa cartina dell’isola, i pallini sono le aree coltivate a uliveto – tecnicamente, la Sardegna olivetata. Percorretela con lo sguardo. L’isola non è solo perimetro. C’è da andare dentro, attraversare. Si possono fare entrambe le cose: unire il mare e la terra, nel nome dell’olio e dei suoi sentori. Si sta risvegliando un turismo che ricerca l’autenticità. Quel turismo va dove ci sono uliveti, produttori, frantoi, possibilità di visitare, assaggiare, acquistare direttamente. Magari anche di mangiare e dormire. Incuriositi? Qui trovate l’elenco delle città dell’olio sarde. Esiste, ma non è facile da trovare, una “Carta dell’olio extra vergine d’oliva di qualità della Sardegna” a cura dell’agenzia regionale per lo sviluppo in agricoltura Laore.

I suoni. Cori (e cuori) vibranti

Sardegna diversa
I cori sardi che fanno canto a tenore hanno un suono tellurico. Sono formazioni a quattro. Maschili. I cantori formano un cerchio, uno spazio armonico, mettendo una mano sulla spalla del vicino e l’altra mano a cuffia su un orecchio. Una voce intona propriamente il canto, le altre formano un tappeto sonoro vibrante, profondo, cantano col cuore. Sono un patrimonio orale e sonoro intangibile e prezioso della Sardegna. Nei paesi, ci hanno raccontato, anche i giovani coltivano quest’arte. Provano negli angoli di strada. E durante le festa per il Montiferru a Seneghe, l’ho visto con i miei occhi: un ragazzo prima timido, spinto con un “Ajò!” ad esibirsi con tre adulti. Poi, l’orgoglio silenzioso nel suo sguardo che risuonava più di mille note.

I pensieri. E se domani …sardegna diversa

E se domani l’olio sardo avesse un minimo comun denominatore, un marchio di riconoscimento? E se per i produttori ci fossero più opportunità formative? E se ci fosse il coraggio di impostare e mappare una rete di realtà olearie vocate all’accoglienza? E se i mesi autunnali della raccolta delle olive diventassero il tempo di un turismo alternativo, più ecoresponsabile? E se si valorizzasse l’incoming straniero legato all’enogastronomia?

Daniela Ferrando, Monica Viani

[immagini: iPhone di Daniela, iPad di Monica, Daniela Capogna foto tenores]

 

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