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#ShotMovieFood. Stray Dogs e la cruda fenomenologia del cibo di Tsai Ming-Liang

Frames in ordine sparso una volta ogni quindici giorni, in esclusiva per Famelici, degustati per voi da Luca Cardone.

Recensioni cinema di Luca Cardone
Luca Cardone: “Se Feuerbach avesse ragione e fossimo ciò che mangiamo, io sarei cinema, filosofia, poesia e altri pochi piatti, tutti possibilmente a base di carne e pesce. Poco Gourmet nel pratico ma tanto nello spirito. Il mio tentativo è quello di approfondire filosoficamente il cosmo culinario all’interno del cinema”.

La giusta premessa è dire che Stray Dogs è l’ultimo film di Ming-Liang, ossia il suo testamento. La sottolineatura necessaria è che l’ultima pellicola del regista taiwanese a tratti non è neanche cinema. I vincoli temporali e narrativi, scardinati con la violenza di un autore che non ha paura di nulla, hanno liberato un mostro, una creatura sacra che al suo passaggio semina desolazione. Questo perché per certi versi, dopo Stray Dogs, per quanto concerne il cinema potremmo e dovremmo tacere per sempre. Il film dall’estetica documentaristica segue le vite disastrose e randagie di una famiglia taiwanese, di un padre e di due figli, tutti abbandonati da una madre e moglie stanca della vita da branco, stanca di dover resistere alla vita, di subirla come una pioggia di sassi contro cui è impossibile difendersi. Lui, il padre, lavora come insegna vivente, mantenendo un cartellone pubblicitario ad un incrocio affollato, sotto qualsiasi intemperia. Lo sguardo è vuoto, l’anima è persa e non gli resta che intonare il canto funebre di se stesso, un inno della disperazione. I due bambini frequentano durante il giorno un grande supermercato, nutrendosi con gli assaggi gratuiti e ingraziandosi una delle dipendenti che consente loro di mangiare il cibo ormai scaduto. Scaduto si, ma non importa e non può importare, perché ad essere scadute con parecchi anni d’anticipo sono le stesse vite dei due bambini che assieme al loro padre non possono fare altro che aggirarsi per i corridoi del supermercato con la fame degli sciacalli e degli avvoltoi, e non dei predatori veri. Saprofagi inscatolati in corpi umani che qualche volta devono pur tornare sulla terra, quella fatta di cose comuni. E le cose comuni sono i giocattoli che i due bambini non possono permettersi. Così la piccola tiene un grosso cavolo come bambola, scarabocchiandovi una faccia rossa. Stray DogsLa “signorina cavolo Lee” sarà amica e gioco per la piccola, ma per suo padre sarà qualcosa di più. L’uomo, preda di un momento di crisi, preso da uno stato di cagnesca ribellione, da continua vittima del mondo tenta di farsi carnefice, prima baciando il cavolo che assume idealmente le sembianze della signora Lee, in una violenza di stampo sessuale come rivincita sull’abbandono, per poi strappare a morsi il cavolo, la signorina cavolo Lee, cannibalizzata  e ingurgitata anzitutto dal vuoto lasciato dalla moglie in carne ed ossa e poi macinata dai denti di un uomo che ha fame, fame di qualsiasi cosa. Infine non può far altro che cedere ad un pianto disperato per l’aver fatto dell’unico svago di sua figlia uno spuntino amaro ma necessario. Il cibo, nel progetto di Ming-Liang, si fa Giano Bifronte, idealizzante sì, ma ancora con i piedi per terra. Tellurico, geologico e carnale istinto di fame ma anche qualcosa di più, quindi con una controparte. Già Omero e il mondo greco arcaico sottolinearono non tanto l’importanza del cibo, ma piuttosto la rilevanza del “momento pasto”, quello in cui il senso d’umanità si esprime nello stare assieme, nel consumare i pasti in compagnia. Significativi sono i passi in cui Achille e altri eroi disgraziati preferiscono non mangiare con i compagni o con la famiglia, non prendere il pane assieme agli altri, semi-citando il testo dell’Iliade. Tutto ciò nel mondo greco si fa sinonimo di bestialità più che di umana solitudine. Tsai Ming-Liang riprende l’insegnamento greco, esclude i suoi protagonisti da qualsiasi tipo di luogo atto al pasto. Isola i suoi affamati burattini sui cigli della strada, sulle sporche spiagge e nei magazzini dei supermercati. Fa dei pasti dei suoi meravigliosi gusci vuote molecole, miscugli di atomi, incapaci di forgiare l’umano. Dunque non c’è momento pasto umanizzante, ma ancor prima non c’è pasto. Il regista taiwanese dipinge un’opera minimalista dai tratti fenomenologici, una ricerca che propone un ritorno “alle cose stesse”, in questo caso al cibo qualsiasi esso sia: dal pollo trovato nella spazzatura al cavolo. La parte che sa rappresentare il tutto. Questo tutto è scarno, sempre poco, completamente de-esteticizzato, ciò che c’è di più lontano da un ricco buffet. Cibo che si fa essenza pura, organico masticato da organico, materia resa ad altra materia, nutrimento la cui unica utilità è alimentare le sospensorie vite di coloro che sono a tutti gli effetti dei quasi-uomini, cani randagi.

Luca Cardone

 

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