Famelicamente bevuto: il brodo di giuggiole ad Arquà Petrarca in una bella cornice tra erbe spontanee e frutta selvatica
Passeggiare per le vie di Arquà Petrarca, in provincia di Padova, sui Colli Euganei, è una vera esperienza culturale. A patto che lo si faccia con il desiderio di conoscere un luogo ricco di storia, di colori, di leggende come quella della gatta nera della casa del Petrarca. La conoscete?
Petrarca e il borgo
Tutto inizia con il ritrovamento di una lettera del Petrarca datata 11 luglio 1374, una settimana prima della morte del poeta.
“Laura, l’amore della mia vita, della cui bellezza non hai mai potuto godere, e che la peste mi ha portato via già da un’eternità ad Avignone, ancora adesso dopo molto tempo dalla sua morte è la regina incontrastata del mio cuore. Eppure un giorno, ormai quasi due estati fa, una gatta è entrata a far parte della mia vita insidiandone il primato. Da allora, questi due esseri si contendono lo scettro del mio cuore combattendo una lunga lotta travagliata, che ancora non ha un vincitore, sul campo di battaglia dei miei pensieri e sentimenti. La gatta ha macchie di tre colori diversi, come pochi in questa zona, zampe lunghe e un carattere dolce. Il suo mantello è morbido come la più raffinata delle sete, ma sono gli occhi quel che la rende speciale. E che la contraddistingue da tutte le altre creature della sua specie. Il suo occhio sinistro è verde brillante come un lago di montagna, l’altro è del misterioso colore dell’ambra luccicante. È entrata nella mia casa e nel mio cuore un bel giorno d’estate mentre stavo completando la mia raccolta di vite De viris illustribus”.
Oggi il custode della casa racconta che da sempre qui vive un gatto nero. Alla sua morte viene sostituito da un altro gatto nero, che vi giunge ramingo non si sa da dove. Ora si è in attesa di un nuovo gatto.
Un week end ad Arquà Petrarca
Insomma vi invito ad andare ad Arquà Petrarca non come uno di quei turisti che come orde barbariche, inseguendo una bandierina gialla, non godono della bellezza del luogo, ma da soli o in compagnia di chi condivide con voi un comune sentire. Vagate in cerca di esperienze culturali e gastronomiche. Non andate in un ristorante o a visitare un’azienda a caso. Non siate vittime della sorte o della fortuna. Fuggite dai piatti precotti o dalle falsificazioni alimentari.
Se evitate queste trappole, potete scoprire chicche gastronomiche capaci di solleticare piacevolmente il vostro palato, raccontandovi un territorio. Così se varcate il cancello della Società Agricola Scarpon ti lasci il tempo alle spalle, o meglio recuperi quel passato che si trasforma in futuro.
La cultura rurale non è una forma culturale ed economica seppellita. Anzi! Può diventare un disegno, un progetto per costruire un futuro auspicabile. E’ la costruzione di una visione gastronomica valida oggi e con grandi possibilità di sviluppo nel futuro.
Superate le proposte sovrabbondanti di ingredienti e salse, si impone in cucina un minimalismo fatto di contrasti e leggerezza. Il protagonista è uno solo: l’eccellenza dell’ingrediente. Io qui ad Arquà Petrarca ho conosciuto la giuggiola, in dialetto veneto “zisoa“.
Il brodo di giuggiole ad Arquà Petrarca: la Società Agricola Scarpon e il trionfo delle erbe spontanee e della frutta selvatica
La famiglia Callegaro, da oltre trent’anni si dedica alla coltivazione di cereali e uva, più di recente, alla trasformazione di diversi prodotti agricoli e alla raccolta di erbe spontanee e frutta selvatica del Parco dei Colli Euganei. Giuggiole, sparasine, cipolle selvatiche, germogli di pungitopo sono solo alcune delle proposte offerte alle enoteche e a chi vuole proporre una cucina autenticamente regionale gourmet.
Il termine gourmet è spesso abusato, violentato. In realtà andrebbero scritte nuove regole, si dovrebbe stabilire una volta per tutte che la cucina della tradizione, rispettosa dell’identità di un territorio, vi entra a pieno diritto. La cucina, non dimentichiamolo, è sperimentazione ma anche cultura! Lavorare, studiare le erbe e i frutti spontanei significa garantire un futuro alla cucina italiana.
Le proposte di Alessandro Callegaro sono molto creative sia pure rispettose della tradizione. Sono il respiro dei Colli Euganei, una soluzione senza fronzoli, una proposta intelligente. I prodotti sono un osare ragionato, un ventaglio di sapori che possono esaltare diverse ricette. “Oltre al brodo di giuggiole– mi racconta Alessandro- proponiamo l’ Estregone, un liquore ricavato da un infuso di erbe officinali, tra cui appunto l’estregone, pianta selvatica della famiglia delle artemisie, la stessa dell’assenzio. Il nome, che significa Piccolo Drago, risale all’epoca di Carlo Magno quando quest’erba era usata come antidoto per i morsi di serpente”.
Brodo di giuggiole, lo conosci veramente?
Quante volte lo abbiamo detto o sentito, riferito ad uno stato d’animo, ad un sentimento? Ma sappiamo cos’è? Ne conosciamo l’origine? Andiamo allora alla scoperta del Brodo di Giuggiole.
E’ un liquore dal sapore dolce, dal colore rosso e dal profumo intenso, che si ottiene dall’infusione della giuggiola. Le sue origini sono antichissime. Nell’Enciclopedia della Crusca del 1600, se ne parla raccontando che la frutta utilizzata è quella autunnale: giuggiole (l’ingrediente principale), mele cotogne, uva, melograni messi in infusione nell’alcool per almeno qualche mese. Successivamente il composto viene filtrato, e, dopo aver portato il grado alcolico a 24 °C, si imbottiglia.
Ulisse e il brodo di giuggiole
Un liquore simile doveva essere conosciuto anche dagli antichi Greci. Nell’Odissea si narra che Ulisse con i suoi compagni approdò, dopo una tempesta, sull’isola dei Lotofagi. La popolazione locale gli offrì il dolce frutto del ‘loto’. Il frutto magico era talmente buono, che ne bevvero tanto, forse troppo. Il risultato? Persero la memoria. L’eroe greco fu costretto a caricare a forza il suo equipaggio sulla nave per evitare che dimenticassero il loro passato.
Sembra che il frutto magico fosse la bevanda ottenuta dalle giuggiole. Per i Romani le giuggiole furono il simbolo del silenzio, nel Medioevo la cultura della giuggiola sopravvisse come rimedio erboristico presso i monasteri. Fu nel periodo rinascimentale a essere nobilitata grazie all’utilizzo in cucina. Sappiamo che la famiglia dei Gonzaga offriva “il brodo di giuggiole” come liquore per accompagnare torte e biscotti secchi da inzuppare nella bevanda.
La citazione foodcultural: andare in brodo di giuggiole
Andare in brodo di giuggiole è un’espressione conosciuta fin dal ‘600. Riportata nel primo dizionario di lingua italiana, il Vocabolario degli Accademici della Crusca, è definita come uno stato d’animo di grande piacere. E’ una variazione dell’espressione toscana “andare in brodo (o broda) di succiole”. E’ riportata alla voce ‘succiare’, con un esempio tratto dal “Morgante” di Luigi Pulci, e alla voce castagna, dove per ‘succiola’ si intende la castagna cotta nell’acqua con la sua scorza.
Brodo di giuggiole nasce da una espressione utilizzata in campo farmaceutico. Dai decotti contro la tosse, proposti come antitumorali per lo stomaco e antidepressivi, si è poi passati all’utilizzo in cucina, per la preparazione di marmellate e confetture.
Visioni e suggestioni fameliche
La sfida di Alessandro è una sfida voluta che dimostra come sia importante seguire i propri sogni e la propria creatività. In questo caso una creatività messa al servizio della difesa della biodiversità.
Si torna alla cucina della tradizione per trasformarla in cucina gourmet, facendo recuperare ai nostri palati sapori a cui non eravamo più abituati. Perché tutto ciò è famelico? Perché è foodcultural, perché esprime autenticamente la cultura del territorio, perché è selvatico, appassionato ed elegante nella sua semplicità. Ma soprattutto sta salvando la proposta enogastronomica italiana da tanti scimmiottamenti. Un’azione eroica, da vero Robin Hood della cucina.
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