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Storia di una via milanese: Giangiacomo Mora, la colonna infame e Manzoni

Storia e cultura: leggiamo la storia passeggiando in via Giangiacomo Mora perchè il  futuro è alle spalle

La storia non si ripete mai uguale a se stessa, ma presenta elementi che aiutano a comprendere gli eventi che sono in corso. Non esiste futuro senza conoscenza storica.

Milano, anno 1630

Molte persone cominciano a morire presentando gli stessi sintomi: febbre alta, mal di testa, dolori articolari, nausea e vomito, sete, diarrea, tumefazione dei linfonodi.

La peste, prima viene negata, poi per continuare a misconoscere il propagarsi dell’epidemia la si combatte con la caccia agli untori. I presunti colpevoli del flagello sono accusati di spargere «un onto pestifero» sui muri della città, sui banconi delle chiese, su ogni superficie.

Ci si dimentica di bloccare l’epidemia, diventa più importante cercare un colpevole, è più impellente individuare chi la propaga. E tutti sappiamo che quando un colpevole lo si cerca, lo si trova. E lo si punisce in modo atroce.

Milano, anno 2020

Molte persone cominciano a morire presentando gli stessi sintomi: mal di gola, tosse, febbre, difficoltà respiratorie.

Il Coronavirus, prima viene negato, poi scoppia la polemica, si cerca chi è stato a propagarlo. Intanto si perde tempo, ci si divide nel partito “è solo un’influenza” e in quello che urla alla pandemia.

L’untore, quella figura che non manca mai quando scoppia un’epidemia

I tratti comuni tra la peste del 1630 e il Coronavirus del 2020 sono la spasmodica ricerca del primo malato che avrebbe contagiato un’intera popolazione. Una modalità che denuncia l’annichilimento che proviamo di fronte a ciò che avvertiamo come un pericolo sconosciuto e indomabile.

La sicurezza delle nostre città, sicuramente più salubri di quelle del 1630, non serve a rassicurarci. Così come nel 1630 ci si distrae dalla paura di morire, cercando un colpevole. Nasce l’esigenza di avere un nome a cui dare la colpa.

Storia di una via milanese: Giangiacomo Mora, ovvero una fake news del 600

Quante volte vi sarà capitato di passeggiare a Porta Ticinese, nei pressi delle Colonne di San Lorenzo? Ebbene avete mai posato lo sguardo su quella scultura seminascosta e sulla targa che recita: “Qui sorgeva un tempo la casa di Gian Giacomo Mora, ingiustamente torturato e condannato a morte come untore durante la pestilenza del 1630”?

La scultura, realizzata dal Menegon nel 2005, raffigura una colonna che ricorda la Colonna Infame, che ha ispirato al Manzoni il saggio la Storia della colonna infame.

Milano nell’estate del 1630 visse la tragedia di contare più di 200 morti al giorno. Non si trovava la cura, tutti cominciarono a credere che loschi figuri, spie di paesi nemici, si aggirassero con unguenti giallognoli, per diffondere la peste. Si iniziò la caccia all’untore.

Lo storico Ripamonti ci narra di un anziano che, prima di sedersi su una panca della chiesa di S. Antonio, passò il mantello per pulirla. Chi assistette alla scena, lo accusò di essere un untore e lo uccise senza pietà. Stessa sorte toccò anche a tre viaggiatori francesi affascinati dal Duomo, tanto da non resistere alla tentazione di toccare il marmo. Impavido gesto! Senza capire perché, furono uccisi.

La mattina del 21 giugno 1630 venne trovata dell’unguento giallastro in tutto Corso di Porta Ticinese; venne accusato di essere un untore il commissario della Sanità, Guglielmo Piazza, che stava solo svolgendo il suo lavoro.

Dopo cinque giorni di torture confessò ciò che gli fu suggerito. Aveva sparso l’unguento datogli da un barbiere del Ticinese: Gian Giacomo Mora.

L’ignaro barbiere fu immediatamente arrestato, torturato e condannato a morte. In Piazza Vetra fu trascinato fino al patibolo per essere impiccato. Se fosse stato ricco avrebbe trovato la morte in Piazza dei Mercanti e avrebbe conosciuto la mannaia.

La condanna pubblica del Piazza e del Mora doveva essere un monito per tutti. Per questo fu rasa al suolo la casa del barbiere e innalzata una colonna di granito allo scopo di ricordare a tutti la fine che facevano gli untori.

Solo nel 700 la colonna fu distrutta, dal momento che da monito si era trasformato in onta per la giustizia.

Manzoni, la storia della Colonna infame e quel senso di giustizia che viene violentato

Storia di una via milanese Giangiacomo Mora. Manzoni narra la peste ne la storia della colonna infame

Mentre Alessandro Manzoni  scriveva i Promessi sposi, lo scrittore s’imbatté in diversi documenti che descrivevano un processo intentato nel 1630 contro due uomini accusati di essere untori.

Questa tragica storia avrebbe dovuto essere parte integrante dei  capitoli dei Promessi sposi dedicati alla peste, ma l’interesse e la lunghezza spinse lo scrittore a non includerla nel romanzo.

In Storia della colonna infame Manzoni narra le vicende di un processo assurdo. Ci si chiede come è possibile che dei giudici potessero credere a superstizioni prive di fondamento, che rispondevano solo a un’isteria collettiva che reclamava sangue per riparare ad altro sangue versato.

Quei giudici sapevano  bene quello che facevano, sapevano cosa voleva il popolo e per tenerlo calmo procurarono finti colpevoli. L’infamia non era dei condannati, ma solo di chi doveva amministrare la giustizia.

Credete ancora che la storia sia solo una “pagina morta”?

 

 

 

 

 

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One Comment

  1. Non è corretto dire che sia il Piazza che il Mora furono condotti in piazza per essere impiccati. Il poveretto subì numerose sedute di tortura, durante le quali ribadì sempre la medesima versione, e che cioè quella mattina stava solo compiendo il suo lavoro, percorrendo la zona della Vetra dei cittadini, delle colonne di S. Lorenzo, di S. Michele alla chiusa e di S. Pietro in campo lodigiano, per segnarsi sul foglio di servizio le case rimaste abbandonate, e prendendo appunti sui decessi avvenuti nel quartiere.
    Sul perché poi camminasse rasente ai muri, si giustificò dicendo che voleva ripararsi dalla pioggia, cosa che se a noi potrebbe apparire più che verosimile, all’epoca fu ritenuta una menzogna bella e buona.
    Tuttavia, non potendo resistere a lungo ai tormenti cui veniva quotidianamente sottoposto, il 26 giugno confessò di aver ricevuto del veleno da un barbiere anche lui del Ticinese, di cui conosceva solo il nome di battesimo: Giovanni Giacomo.
    Il Piazza si era inventato dunque una storia credibile, narrando che il barbiere lo aveva avvicinato qualche tempo prima, offrendogli una buona ricompensa se in cambio si fosse prestato ad ungere le case della zona con una sostanza di tipo “giallo, duro, come l’oglio gelato nel tempo dell’inverno”, che lo stesso barbiere fabbricava di nascosto nella sua bottega, e con la quale poi riempiva certe ampolline di vetro.
    Il notaio, che assisteva all’interrogatorio, mise a verbale che il Piazza confessava di aver ricevuto la sostanza una sola volta, e di averla utilizzata nella zona circostante la Vetra dei cittadini, ma non oltre il ponte dei Fabbri (attuale piazza Resistenza partigiana). Forti di quanto estorto con la tortura, il presidente della sanità, col notaio ed una opportuna scorta, si presentarono nella bottega di barbiere (ad angolo tra la Vetra dei Cittadini e il corso di Porta Ticinese) di Gian Giacomo Mora, in quel momento in compagnia del figlio, Paolo Gerolamo, intento a sbrigare le proprie faccende. Trascinato in carcere, alla domanda se conoscesse il Piazza e se mai gli avesse consegnato un vasetto di vetro ricolmo di un certo preparato, il Mora, sempre all’oscuro del reato per il quale era stato messo agli arresti, ammise di conoscerlo e di avergli venduto tal unguento salvavita, dato il mestiere pericoloso che il Piazza svolgeva, sempre a contatto con cadaveri e ammalati. In un processo indiziario e inquisitorio, quello che appariva certo era una sola cosa: il Mora produceva del veleno, tracce del quale erano state rinvenute nella bottega, e ne aveva fornito il Piazza, col fine criminoso di diffondere il contagio a Milano. Stremato da più di un mese di torture, domenica 30 giugno il Mora iniziò a rendere piena confessione, sperando di porre fine a quell’incubo e di avere salva la vita.

    Raccontò dunque di aver più volte preparato un unguento pestifero, che ricavava utilizzando la “bava raccolta dai morti di peste”, materia che lo stesso Piazza gli forniva, essendo per lavoro sempre a contatto coi monatti e i carri stracolmi di appestati. La sostanza veniva poi fatta bollire in quel pentolone rinvenuto in cortile.
    Successivamente, sottoposto ad altri tratti di corda, il Mora aggiunse di aver organizzato il tutto dietro compenso versatogli da un personaggio di spicco, appunto Gaetano de Padilla, il cui nome evidentemente venne messo in bocca al Mora dai giudici.
    Con la confessione, il barbiere aveva firmato la sua condanna a morte.
    In uno degli ultimi giorni di quel maledetto luglio del 1630 (vi è incertezza sulla data), il Senato milanese emanò, dopo quasi un mese e mezzo di indagini, interrogatori, torture, arresti, la più terribile delle condanne, a danno del Piazza e del Mora, che troveranno così la morte pochi giorni dopo, il 1° agosto.

    sei in Personaggi >> Milanesi illustri >> gian giacomo mora

    Gian Giacomo Mora, il barbiere della peste manzoniana
    di Mauro Colombo

    La peste del 1630
    Prime avvisaglie dell’epidemia
    Tra le numerose epidemie di peste che flagellarono Milano lungo i suoi secoli di vita, quella del 1630 è da considerare senz’altro la più conosciuta e ricordata, per merito indiscusso del Manzoni, che la scelse quale cupo sfondo alle vicende narrate nei Promessi sposi.

    Anche questa epidemia, come le precedenti (l’ultima aveva devastato la città nel 1576), non arrivò improvvisamente nell’arco di pochi giorni, bensì si sviluppò lentamente ma inesorabilmente dando le prime avvisaglie moltissimi mesi prima, e prova ne è che già nel 1628 la Sanità milanese (l’organo preposto alla tutela della salute dei cittadini), considerate le poco rassicuranti notizie riguardanti i contagi che dilagavano in Europa, aveva emanato una grida per porre Milano al riparo da ogni sorta di rischio. Successivamente, sull’onda dei racconti provenienti soprattutto dalla Svizzera, vennero pubblicati alcuni bandi per vietare il commercio con Friburgo e Berna.

    Il senatore Ludovico MelziIl governatore Ambrogio SpinolaIn marzo, ad aggravare la carestia che da qualche tempo si era abbattuta sul Milanese (carestia che spingerà il popolo, nel novembre successivo, ad assaltare i forni e la casa del vicario di provvisione Ludovico Melzi, in via S.Maria Segreta), ci si mise la guerra per la successione nel Monferrato tra la Francia e gli Asburgo. L’esercito spagnolo pose l’assedio a Casale, il che comporterà per i mesi seguenti, come vedremo, pericolosi movimenti di truppe attraverso i territori di Milano. Sul piano politico, a fine agosto, vi fu il passaggio di consegne tra il nuovo Governatore, Ambrogio Spinola, e l’odiato Gonzalo Fernandez de Cordova, la cui partenza fu salutata dal popolo come una liberazione.

    Tuttavia, tra proclami e bandi inascoltati, arrivò l’ottobre del 1629 senza che importanti e mirati provvedimenti fossero ancora stati presi, e ciò a causa, prevalentemente, dello scetticismo che le autorità mostravano circa la possibilità che la peste varcasse le porte cittadine. Neppure la morte sospetta di Alfonso Visconti, all’epoca vicario di provvisione, smuoverà Ludovico Settala, di cui parleremo più avanti, dalla sua ostinazione nel volere negare l’esistenza della peste a Milano.

    Del resto, in questo periodo, il registro del lazzaretto di Porta Orientale, regolarmente in funzione dall’inizio del 1500 e adibito a ricovero di malati contagiosi, riporta soltanto tre ricoverati sospetti, prelevati dalle rispettive abitazioni dietro segnalazione dell’Anziano di S. Babila.

    La paura cominciò a diffondersi veramente solo il 12 ottobre, con la notizia che a Malgrate, il giorno prima, erano morte dodici persone sane e robuste.

    Il primo caso di peste a Milano
    Il lazzaretto di Porta OrientaleIl 22 ottobre 1629, proveniente da Lecco o da Chiavenna, tornò in città Pietro Antonio Lovato, abitante in porta Orientale, nella parrocchia di S. Babila, portando con sé molti abiti barattati o acquistati dai fanti alemanni. Dopo tre giorni trascorsi nella propria casa assieme ai familiari, fu ricoverato all’Ospedale Maggiore, dove tuttavia morì nell’arco di due soli giorni.

    Sul suo corpo, il barbiere e il capoinfermiere rinvenirono “un flegnione nel brazzo sinistro, et principio di infiammatione sotto all’assela, pure sinistra” (Cronaca del Settala). Pertanto si bruciarono al più presto il letto e le sue povere cose, dopodiché i familiari dell’uomo furono trasportati al lazzaretto per la quarantena.

    Dopo questo caso di peste conclamata, furono pubblicate numerose grida che proibivano baratti coi soldati tedeschi di passaggio, mentre la Sanità milanese pensò bene di introdurre l’utilizzo obbligatorio delle “bollette personali di sanità”, una sorta di passaporto medico che accertasse la provenienza da territori sani di ogni persona che volesse entrare in Milano.

    Più che questi blandi provvedimenti, fu il rigido inverno ad arrestare, momentaneamente, il diffondersi del contagio.

    Il medico Ludovico SettalaIl 1° gennaio 1630 a G. B. Arconati, Presidente della sanità, subentrò M. A. Monti, coadiuvato da alcuni fisici e dall’illustre medico e protofisico Ludovico Settala, che avrà un ruolo importante durante tutto il decorso della pestilenza.

    Il carnevale portò un periodo di spensieratezza e festeggiamenti, durante i quali nessuno parve preoccuparsi delle persone che, sebbene in non larga misura, morivano di peste entro tre giorni dai primi sintomi. Ai festeggiamenti carnevaleschi si aggiunsero quelli, ancora più sfarzosi, in onore della nascita, avvenuta nel novembre dell’anno precedente, dell’infante di Spagna.

    Dal clima euforico non si salvava neppure il lazzaretto, dove si organizzavano feste e balli, e si commerciava impunemente con l’esterno. Questi eccessi, ed altri ben più gravi, spinsero alla pubblicazione dei severi “Ordini dell’hospitale di S. Gregorio detto lazzaretto, fatti e instituiti dai fisici collegiati Alessandro Tadino et Senatore Settala” (18 febbraio 1630). In ogni caso, poco dopo, per risolvere definitivamente i problemi connessi alla disciplina, i conservatori della città ne affidarono la gestione e l’organizzazione al padre cappuccino Felice Casati.

    A marzo si ebbero grandi spostamenti di truppe, da Geradadda dirette verso il Monferrato, truppe che, nonostante gli evidenti rischi di diffusione incontrollata del contagio, transitavano in città, bivaccando per giorni nelle campagne circostanti. Dalla Valsassina, inoltre, scesero 4.000 lanzichenecchi, diretti nel novarese e nel mantovano.

    Con la primavera i morti presero sensibilmente ad aumentare, tanto che a maggio, col primo vero caldo, il lazzaretto si mostrò incapace di accogliere altri appestati. Si ipotizzarono dunque varie soluzioni, tra le quali requisire il borgo della Trinità, fuori Porta Ticinese, per adibirlo a ricovero dei sospetti, lasciando il lazzaretto solo per i malati accertati.

    Inoltre, si ventilò l’ipotesi, poi scartata, di sigillare l’intero borgo di Porta Orientale, la zona di Milano col più alto numero di malati e di decessi.

    Caccia agli untori
    Proprio quando il cardinale Federico Borromeo iniziava ad organizzare processioni cittadine per invocare l’aiuto divino contro il flagello, tra il popolo iniziò a diffondersi la voce circa la presenza un po’ ovunque di loschi personaggi che, muniti di veleni e intrugli vari, andavano ungendo mortalmente le zone di maggior passaggio. Il 17 maggio, durante la consueta processione serale all’interno del duomo, alcuni fedeli videro distintamente alcune persone nell’atto di ungere la balaustra che all’epoca divideva la zona riservata agli uomini da quella delle donne.

    Dato prontamente l’allarme, accorse per un sopralluogo lo stesso presidente della sanità Monti, individuando in più punti, ma soprattutto sulle panche, macchie di materiale untuoso e sconosciuto.

    Dopo questo caso clamoroso, si misero a verbale molte denunce di cittadini, terrorizzati dalle continue unzioni che nottetempo venivano compiute a danno di portoni, maniglie e catenacci.

    Lo storico Ripamonti riferisce due casi che riassumono bene il clima di sospetto che aleggiava in quei tempi.

    Uno riguarda tre viaggiatori francesi, i quali visitando la nostra città, giunti davanti allo splendido marmo del Duomo, vi passarono le mani per saggiarne la levigatura. Furono subito percossi da alcuni popolani, e poi trascinati in carcere con l’accusa di essere untori.

    L’altro, di un vecchio che prima di sedersi su di una panca in S. Antonio, ebbe la malaugurata idea di spolverarla col proprio mantello. I fedeli presenti lo aggredirono a calci e pugni, abbandonandolo morto.

    La situazione si era fatta a questo punto ingestibile: il numero dei decessi aumentava ogni giorno di più, così come le tracce di sostanze appiccicose, rinvenute ormai dappertutto, nonostante il Monti avesse dato alle stampe una grida “contro coloro che sono andato ungendo le porte, catenacci, e muri di questa città”.

    Di tutto ciò il Governatore dello Stato accusava apertamente le potenze straniere nemiche della Spagna, colpevoli, a suo dire, di aver prezzolato individui senza scrupoli per diffondere la peste in tutta la città, col chiaro intento di ridurre il ducato milanese in ginocchio.

    La zona del GentilinoAlla fine di maggio, con quaranta decessi al giorno e centinaia di malati, venne allestito un secondo lazzaretto, al Gentilino, affidato ai carmelitani, che vi entrarono il giorno 8 giugno.

    E mentre anche le cause civili erano ormai sospese per precauzione, martedì 11 giugno, a mezzogiorno, si mosse la grande processione col corpo di Carlo Borromeo, voluta dal cardinale Federico, ultima speranza di un evolversi positivo del contagio. La processione si snodò lungo le vie, toccando tutte le porte della città, e di volta in volta fermandosi ai piedi delle numerose croci stazionali innalzate in occasione della pestilenza del 1576.

    Processione di carri lungo il corso di Porta OrientalePurtroppo, la grandissima affluenza di popolo portò, come prevedibile, ad un incremento della virulenza del male, che nelle settimane successive falciò inesorabilmente migliaia di persone, con una media di centocinquanta morti al giorno, numero che toccò con l’estate i duecento e più.

    Ormai la situazione appariva drammatica: migliaia di case chiuse o abbandonate ai saccheggi, infermi lasciati senza conforto e senza alcun tipo di aiuto medico, un macabro andirivieni, di notte e di giorno, di carri colmi di cadaveri, fisici e protofisici incapaci di dare risposte se non ricorrendo ai soliti salassi.

    I nobili frattanto, davanti allo spettacolo di una città ridotta a bolgia di dannati, si erano dati precipitosamente alla fuga, diretti nelle più sicure dimore di campagna, nonostante le grida che proibissero di lasciare Milano, pena la confisca dei palazzi e di tutti gli averi.

    Gian Giacomo Mora: il capro espiatorio
    L’unzione alla Vetra dei cittadini
    Quando ormai le cifre ufficiali parlavano apertamente di 14.000 decessi per peste dall’inizio dell’epidemia e la città si presentava, come scriveva il Monti, “miserabilissima”, i milanesi di Porta Ticinese e del Carrobbio ebbero un terribile risveglio, la piovosa mattina di venerdì 21 giugno 1630.

    Nella zona, infatti, tutti i muri, le porte, gli angoli, e i catenacci delle case apparivano imbrattati con una sostanza appiccicosa di colore giallo. Nazario Castiglioni, sagrestano di S. Alessandro, è il primo ad informare dell’accaduto il capitano di giustizia, Gianbattista Visconti, che si recò immediatamente in Porta Ticinese per far luce sull’accaduto.

    Le informazioni che sono pervenute a noi, e che ci permettono di ricostruire tutti i drammatici risvolti della vicenda, sono contenute in alcune copie (leggermente differenti tra loro) fatte del verbale originale degli atti processuali, questo essendo da considerarsi perduto, nonostante le pignole ricerche effettuate dallo stesso Verri, prima, e dal Niccolini, poi.

    Delle copie esistenti, una, a stampa (considerata la più attendibile) fu pubblicata nel 1633 ed è conservata alla Braidense (A.B. XIII.32), mentre un’altra, manoscritta, sempre custodita alla Braidense (Manz. XII. 65-66), in due volumi, fu a fondo studiata dal Manzoni, del quale riporta ancora le postille autografe.

    L’arresto di Guglielmo Piazza
    Da quanto si apprende dalle copie degli interrogatori, il Capitano di giustizia, dopo aver ascoltato decine di popolani, scovò finalmente una testimone ben informata: Caterina Trocazzani, vedova di Alessandro Rosa. Questa abitava in alcune stanzette le cui finestre s’affacciavano sulla Vetra dei cittadini, una strada che si immetteva sul corso di Porta Ticinese, sbucandovi quasi in faccia alle colonne di S. Lorenzo.

    La Trocazzani raccontò di aver visto, intorno alle otto di quel venerdì mattina, un uomo alquanto sospetto, avvolto in una mantella nera e con un grosso cappello, il quale camminava in modo a suo dire sospetto, rasente ai muri, e “che aveva una carta piegata al longo in mano, sopra la quale metteva su le mani, che pareva che scrivesse (…) che a luogo a luogo, tirava con le mani dietro al muro”.

    Un’altra donna del quartiere, Ottavia Persici, moglie di Giovanni Bono, descrisse la stessa scena, e concordò sulle fattezze e il comportamento dell’individuo.

    La Trocazzani poi, sempre affacciata al davanzale, disse di aver visto l’uomo misterioso allontanarsi, non senza aver prima salutato un passante, ch’ella, per combinazione, conosceva. Da questo seppe dunque il nome del presunto untore.

    Fu così immediatamente tratto in carcere “un uomo di statura grande, magro, con barba rossa assai longa, capelli castani scuri, in camisa dal mezzo in su, con calzoni di mezzalana mischia stracciati, calcette di stamo nero, et ligazzi di cendal nero”: il suo nome era Guglielmo Piazza, di professione Commissario di sanità. La sua abitazione in porta Ticinese, per l’esattezza nella parrocchia di S. Pietro in Camminadella, fu perquisita, ma nonostante lo zelo non si trovò alcunché di sospetto.

    Il poveretto subì numerose sedute di tortura, durante le quali ribadì sempre la medesima versione, e che cioè quella mattina stava solo compiendo il suo lavoro, percorrendo la zona della Vetra dei cittadini, delle colonne di S. Lorenzo, di S. Michele alla chiusa e di S. Pietro in campo lodigiano, per segnarsi sul foglio di servizio le case rimaste abbandonate, e prendendo appunti sui decessi avvenuti nel quartiere.

    Sul perché poi camminasse rasente ai muri, si giustificò dicendo che voleva ripararsi dalla pioggia, cosa che se a noi potrebbe apparire più che verosimile, all’epoca fu ritenuta una menzogna bella e buona.

    Tuttavia, non potendo resistere a lungo ai tormenti cui veniva quotidianamente sottoposto, il 26 giugno confessò di aver ricevuto del veleno da un barbiere anche lui del Ticinese, di cui conosceva solo il nome di battesimo: Giovanni Giacomo.

    Il Piazza si era inventato dunque una storia credibile, narrando che il barbiere lo aveva avvicinato qualche tempo prima, offrendogli una buona ricompensa se in cambio si fosse prestato ad ungere le case della zona con una sostanza di tipo “giallo, duro, come l’oglio gelato nel tempo dell’inverno”, che lo stesso barbiere fabbricava di nascosto nella sua bottega, e con la quale poi riempiva certe ampolline di vetro.

    Il notaio, che assisteva all’interrogatorio, mise a verbale che il Piazza confessava di aver ricevuto la sostanza una sola volta, e di averla utilizzata nella zona circostante la Vetra dei cittadini, ma non oltre il ponte dei Fabbri (attuale piazza Resistenza partigiana).

    L’arresto di Gian Giacomo Mora
    Gian Giacomo MoraForti di quanto estorto con la tortura, il presidente della sanità, col notaio ed una opportuna scorta, si presentarono nella bottega di barbiere (ad angolo tra la Vetra dei Cittadini e il corso di Porta Ticinese) di Gian Giacomo Mora, in quel momento in compagnia del figlio, Paolo Gerolamo, intento a sbrigare le proprie faccende.

    Per sua somma disgrazia, il Mora, che come tutti i barbieri dell’epoca si occupava anche di bassa chirurgia, da quando era scoppiata la peste arrotondava i magri guadagni vendendo un prodotto da lui stesso inventato, un rimedio contro il contagio, che era alquanto richiesto dal popolo, privo, del resto, di altri e più efficaci trovati scientifici.

    Il barbiere pertanto, viste le guardie e spaventato dal fatto che queste iniziavano una minuziosa perquisizione della bottega, pensò di confessare la colpa che, a suo ingenuo avviso, aveva spinto qualcuno a denunciarlo: ammise così di aver più volte preparato un unguento senza averne l’autorizzazione, ma di averlo fatto solo a fin di bene, per amore del prossimo. Non poteva neppure immaginare, in realtà, quale accusa terribile gli sarebbe stata mossa di lì a poco.

    Durante la perquisizione della casa, fu sequestrata una gran quantità di sostanze e pozioni, il cui elenco venne steso dal notaio presente. La scoperta più interessante la si fece però nel cortile interno del caseggiato, dove in un angolo un poco nascosto si rinvenne un grosso pentolone dimenticato al sole, dentro al quale marciva “un aqua, in fondo alla quale vi è un’istessa materia viscosa e bianca, e gialla”. Il tutto fu catalogato come “lisciva e cenere”, una sostanza che, ricorda anche il Manzoni, veniva comunemente adoperata, col nome popolare di “ranno” o “smoglio” per fare il bucato.

    Trascinato in carcere, alla domanda se conoscesse il Piazza e se mai gli avesse consegnato un vasetto di vetro ricolmo di un certo preparato, il Mora, sempre all’oscuro del reato per il quale era stato messo agli arresti, ammise di conoscerlo e di avergli venduto tal unguento salvavita, dato il mestiere pericoloso che il Piazza svolgeva, sempre a contatto con cadaveri e ammalati.

    Quell’intruglio, secondo la sua confessione riportata nel verbale dell’interrogatorio, era composta di “8 onze d’oglio di oliva, 4 di aglio laurino, 4 d’oglio di sasso detto filosophorum, 4 di cera nova, 4 di rosmarino, 4 di ballette di ginepro, e 4 onze di polvere di salvia”. La pozione andava sfregata sui polsi, e conservava la salute da ogni contagio di peste.

    Inutile dire che la sanità milanese volle vedere in quella storia ben altri risvolti. In un processo indiziario e inquisitorio, quello che appariva certo era una sola cosa: il Mora produceva del veleno, tracce del quale erano state rinvenute nella bottega, e ne aveva fornito il Piazza, col fine criminoso di diffondere il contagio a Milano.

    Per eliminare ogni dubbio, il Senato milanese convocò dei “periti” perché analizzassero la sostanza rinvenuta nel pentolone abbandonato nel cortile della bottega, al fine di accertare se fosse o meno il comune smoglio da bucato.

    Vennero così ascoltate due lavandaie professioniste. La prima, Margherita Arpizanelli, disse che in effetti trattavasi sì di smoglio, ma non puro, perché a suo dire vi si potevano scorgere “delle furfanterie”. La seconda, Giacomina Andrioni, si disse sicura che lo smoglio contenesse “delle alterazioni”, e che con quello si potessero fare “gran porcherie, e tosiche”.

    Per completare il giro dei periti, si mise a verbale anche il responso di Archileo Carcano, fisico collegiato, secondo il quale, addirittura, la sostanza rinvenuta non era smoglio, anche se, poco professionalmente, tagliò corto con un “ma io non ho osservato troppo bene”.

    Il Verri scrisse a proposito: ”In una bottega di un barbiere dove si saranno lavati de’lini sporchi e dalle piaghe e da’ cerotti, qual cosa più naturale che il trovarsi un sedimento viscido, grasso, giallo, dopo varii giorni d’estate?”.

    Ma di diversa opinione era il Senato, che tratte le sue conclusioni, voleva solo ottenere le confessioni necessarie per emettere la condanna.

    Nel mese di luglio si ebbero numerosi arresti, sulla base di testimonianze popolari o dietro confessioni estorte torturando al limite della sopravvivenza il Piazza e il Mora.

    Tra gli altri, varcarono le soglie delle carceri anche quattro ragazzi, con l’accusa di aver catturato lucertole per conto del Mora, al prezzo di un soldo l’una, e con le quali, secondo l’accusa del Senato, venivano preparati gli unguenti pestiferi. Il barbiere, di contro, si giustificò dicendo che le lucertole erano impiegate per preparare un olio contro “le aperture”, di cui soffriva un suo cliente di nome Saracco.

    Nelle calde giornate comprese tra il 27 e il 30 giugno si organizzò il confronto tra il Piazza e il Mora, ai quali si concedettero infine sei giorni di tempo per definire le loro difese, termine che comunque venne più volte procrastinato, secondo le esigenze degli inquisitori.

    Durante un interrogatorio segreto e pertanto non trascritto in alcun verbale, il Piazza accusò quale untore il cavaliere Giovanni de Padilla, figlio del castellano di Milano. In considerazione del suo lignaggio, viene chiesta l’autorizzazione all’arresto direttamente al Governatore Spinola. Il Padilla, senza intervento di ufficiali, fu condotto nel castello di Pomato per un primo interrogatorio. Si susseguono rapidamente altri arresti e altre accuse, tra le quali quelle rivolte ad alcuni banchieri (Turconi, Sanguinetti) e ai loro impiegati, che secondo il teorema accusatorio, avrebbero pagato, su commissione, gli untori.

    La confessione del Mora
    Stremato da più di un mese di torture, domenica 30 giugno il Mora iniziò a rendere piena confessione, sperando di porre fine a quell’incubo e di avere salva la vita.

    Raccontò dunque di aver più volte preparato un unguento pestifero, che ricavava utilizzando la “bava raccolta dai morti di peste”, materia che lo stesso Piazza gli forniva, essendo per lavoro sempre a contatto coi monatti e i carri stracolmi di appestati. La sostanza veniva poi fatta bollire in quel pentolone rinvenuto in cortile.

    Successivamente, sottoposto ad altri tratti di corda, il Mora aggiunse di aver organizzato il tutto dietro compenso versatogli da un personaggio di spicco, appunto Gaetano de Padilla, il cui nome evidentemente venne messo in bocca al Mora dai giudici.

    Con la confessione, il barbiere aveva firmato la sua condanna a morte.

    La colonna infame
    La sentenza del Senato milanese
    In uno degli ultimi giorni di quel maledetto luglio del 1630 (vi è incertezza sulla data), il Senato milanese emanò, dopo quasi un mese e mezzo di indagini, interrogatori, torture, arresti, la più terribile delle condanne, a danno del Piazza e del Mora, che troveranno così la morte pochi giorni dopo, il 1° agosto.
    Come previsto dalla sentenza capitale, i due untori rei confessi, legati schiena a schiena, furono caricati su di un carro trainato da buoi, attorniato da una folla inferocita. Il corteo partì dal palazzo del Capitano di giustizia (attuale comando della Vigilanza Urbana) e, passando prima accanto al Duomo e snodandosi poi attraverso le varie tortuose contrade dei Mercanti d’oro, dei Pennacchiari, della Lupa, della Palla, di S. Giorgio al palazzo (che ora, rettificate, formano la via Torino), raggiunse il Carrobbio.
    Poi imboccò la strada di S. Bernardino alle monache, dove i due vennero tormentati con tenaglie arroventate, successivamente proseguì per S. Pietro in camminadella, e, sostando davanti alla bottega del Mora, ai condannati si amputò la mano destra. Infine, il macabro corteo si arrestò nell’attuale piazza della Vetra, tristemente famoso prato ove era abitualmente allestito il patibolo. Fatti scendere sullo sterrato gremito di popolo, i condannati furono legati alla “ruota” (strumento molto in voga all’epoca) e colpiti duramente con bastoni fino alla rottura di tutte le ossa. Seppure in agonia, i due poveretti rimasero per sei ore esposti alla pubblica vista, affinché tutti potessero meditare sulla terribile sorte riservata agli untori.
    Al termine del rituale, si pose fine alle loro sofferenze scannandoli, bruciandoli, e gettando le loro ceneri nella Vetra che scorreva lì accanto.

Written by Monica Viani

Vivo a Milano, frequento librerie, musei, cinema, teatri e ...ristoranti! Laureata in filosofia, ex insegnante di materie umanistiche nei licei classici e scientifici milanesi, sono approdata nel 1998 al giornalismo enogastronomico. Dopo aver coordinato diverse riviste tecniche, aver dato vita a una collana e curato diversi libri, nel 2017 ho deciso con Alessandra Cioccarelli di fondare il blog Famelici, un blog "di frontiera", dove declinare il cibo in mille modi. Io e Ale scriviamo di cibo, rimandando a Marx, a Freud, a Nietzsche, ai futuristi, perché crediamo che il cibo sia cultura. Perché lo facciamo? Per dimostrare che si può parlare di food rifuggendo dalle banalità. Stay hungry, stay foolish!

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