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Quando in Italia si coltivava la canapa, ma Salvini non lo sa

Tra le tante polemiche sollevate dal Ministro degli Interni Matteo Salvini una riguarda anche la canapa. Salvini, assiduo frequentatore dei social e delle spiagge meno del Parlamento, vuole chiudere i negozi che vendono la cannabis light. In gioco c’è un giro d’affari di non poco conto e soprattutto il coinvolgimento di persone che hanno investito soldi in un’attività economica.

Da gennaio 2017, sono stati aperti mille shop; avviate 800 partite Iva agricole specializzate e inaugurate 1.500 nuove aziende di trasformazione e distribuzione. Gli addetti del settore sono diecimila e il volume d’affari calcolato dal consorzio del comparto è di 150 milioni di euro nel 2018. Nel 2018 sono stati coltivati in Italia 2500 ettari a canapa e la previsione di chiudere l’anno con un raddoppio delle superfici.

Quando in Italia si coltivava la canapa

Eppure in Italia esiste la cultura della canapa. In un recente press tuor nel viterbese ho scoperto che molte persone ancora oggi per indicare l’orto di casa usano il termine il canaparo. Il termine in origine indicava chi coltivava la canapa, una pianta originaria dell’Asia Centrale. La cannabis sativa ha radice fittonante e profonda, fusti di circa 5 metri, foglie opposte, lungamente picciolate, composte da 5 a 9 foglioline lanceolate. Le piante si distinguono in maschili e femminili, con fiori che si sviluppano lungo i rami diversi secondo l’organo riproduttivo e frutti (canapuccia).

É cultura da rinnovo che vuole terreno profondo, soffice e ricco di sostanza organica. Si semina  tra fine marzo e inizio aprile. La raccolta è a luglio. Una volta si praticava l’estirpazione, poi con una rucola si tagliavano le radici. La canapa era fatta essiccare per qualche giorno al sole, poi con la battitura erano separati i semi da utilizzare per la semina successiva. Attraverso la conciatura si separavano le impurità dai semi. Con una pala si brillava il seme in aria in modo che il vento asportasse le parti più leggere. I fusti privi delle foglie e delle infiorescenze erano ripartiti in fasci e portati a macerare nell’acqua per diversi giorni.

Dopo la macerazione i fasci erano fatti asciugare al sole, per poi separare la fibra dalla canna Si usavano la scotola o acciccatoro, da cui  scotolatura e il macello da cui maciullatura. La fibra era portata dal Canepino che eliminava le ultime impurità. I 3 tipi di filame tornavano al proprietario che iniziava la filatura con la rocca e il fuso.

Il filato era passato nel depanatoro per ottenere l‘accia o matassa. L’accia era sbiancata all’interno di una tinozza di legno con un foro sul fondo per fare diluire i liquidi, coperto con un telo e cosparso di cenere, quindi aggiunta acqua bollente e lasciata a bagno per un giorno, ripetendo l’operazione per 3 volte. Si doveva raggiungere il colore bianco. Tolta l’acqua, la cenere rappresa era usata come sapone per i successivi bucati. Il risciacquo avveniva in acqua corrente, si faceva asciugare al sole e si formavano i gomitoli con il depanatoro. Tutto era pronto per la tessitura.

 

 

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Written by Monica Viani

Vivo a Milano, frequento librerie, musei, cinema, teatri e ...ristoranti! Laureata in filosofia, ex insegnante di materie umanistiche nei licei classici e scientifici milanesi, sono approdata nel 1998 al giornalismo enogastronomico. Dopo aver coordinato diverse riviste tecniche, aver dato vita a una collana e curato diversi libri, nel 2017 ho deciso con Alessandra Cioccarelli di fondare il blog Famelici, un blog "di frontiera", dove declinare il cibo in mille modi. Io e Ale scriviamo di cibo, rimandando a Marx, a Freud, a Nietzsche, ai futuristi, perché crediamo che il cibo sia cultura. Perché lo facciamo? Per dimostrare che si può parlare di food rifuggendo dalle banalità. Stay hungry, stay foolish!

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