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La grande abbuffata, il film più dissacrante sul cibo compie 50 anni

‘La Grande Abbuffata’, diretto da Marco Ferreri, è la rappresentazione più cruda e dissacrante dellautodistruzione dell’uomo nella società dei consumi. Una feroce critica all’imporsi di un sistema di valori che non contempla più l’individuo ma solo il consumo.

Alcune frasi celebri de La Grande Abbuffata: – Ugo: Un buon cuoco dev’essere? – Philippe: “Un perfetto chirurgo!” oppure “Ho pensato a un menu incredibile. A un menu del cazzo”.

50 anni fa “La grande abbuffata” sconvolse la critica e irritò gran parte del pubblico. Film italo-francese, diretto da Marco Ferreri, non fu ben accolto nelle sale cinematografiche. In Italia la censura impose il taglio di diverse scene, mentre in Spagna ne bloccò la visione per sei mesi ritenendo che fosse un film eccessivamente provocatorio. Il suicidio gastronomico di quattro amici, che rappresentavano diversi tipi di borghesia, era giudicato insopportabile.

Il film fu considerato eccessivo, lascivo e grottesco. In realtà è ribelle, tagliente, scomodo, scorretto e deliziosamente eccessivo. Era un film che negava con forza la cultura del suo tempo, facendosi beffa dello stesso pubblico a cui si rivolgeva. Solo alcuni registi imboccarono la stessa strada. Il fascino discreto della borghesia di Luis Buñuel era uscito un anno prima vincendo l’Oscar come miglior film straniero. In quel caso, la sovrapposizione di reale e onirico attraverso la descrizione del mangiare in un ristorante di lusso come simbolo della nuova classe dell’alta borghesia, aveva ottenuto il favore degli spettatori. La Grande Abbuffata richiamava in modo evidente l’opera del marchese de Sade, I 120 giorni a Sodoma. I riferimenti, soprattutto quelli sessuali, provocarono il rifiuto e la condanna. Presentato in concorso al 26º Festival di Cannes, fu ferocemente fischiato e non ottenne alcun premio. Molti critici finsero di non cogliere il sottotesto della trama.

Ferreri e Brunel: due registi simili, eppure diversi

Perchè Brunel ebbe successo e Ferreri fu distrutto dalla critica? Ce lo spiega lo stesso Ferreri: “Buñuel è un signore che ha ancora dei tabù, delle paure, una ideologia ben salda di origine ottocentesca contro cui cerca invano di scagliarsi. […] Lui ha ancora paura della grandine, del tuono, di Dio, dei preti. Io assolutamente no. A me piacciono i film di Buñuel ma non condivido per niente quello che dice. Può darsi che ci sia un accostamento in quanto anch’io uso i nani, le vecchie, la brutta gente come fa Buñuel. Però è un accostamento esteriore“. (Maurizio Grande, Marco Ferreri, Il Castoro Cinema, La Nuova Italia, Firenze,1980).

La trama di un film irriverente e provocatorio

la grande abbuffata

I protagonisti del film, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Michel Piccoli e Philippe Noiret, decidono di incontrarsi in un fatiscente palazzo parigino con un giardino abbandonato in cui gli animali vagano liberamente. I personaggi cinematografici mantengono i nomi degli attori. E già questo confonde. Realtà o finzione? I quattro amici conducono una vita borghese, apparentemente godono di un discreto benessere, ma, nonostante ciò non provano piacere. In una società che promette la felicità, come si può sopportare la delusione? E se il godimento sfugge, allora perchè non ammazzarsi di piacere? Perchè non lasciarsi andare a tutti quei bisogni primari che in una società borghese vanno controllati e resi accettabili imponendo la moderazione e la loro legittimazione?

Al gruppo di amici, uniti nell’impresa di darsi la morte attraverso il cibo, si uniscono tre prostitute, che li abbandoneranno appena si renderanno conto della tragica evoluzione dell’incontro. Andréa, una maestra passata lì per caso, si unisce alla comitiva. Solo lei accetterà la parte di accompagnarli verso la morte.

Nel fondo dei bicchieri con cui i quattro amici brindano vi è una feroce critica contro la società dei consumi e dell’individualismo sfrenato. Una critica impietosa rivolta alla crisi esistenziale dell’età adulta e un’ode al nichilismo, unica forma di ribellione contro una società ormai priva di umanità. Incombe solo la morte come unica forma di liberazione. La grande abbuffata a tavola si trasforma in una metafora di come la ricerca dell’eccesso alla fine paradossalmente porti alla noia, alla morte del desiderio e alla fine all’incapacità di costruire un futuro. Una analisi che legge la società di oggi con implacanile lucidità.

Perché rivedere La Grande Abbuffata in un’epoca di digiuno culturale

Sono passati cinquant’anni dalla prima proiezione de La grande abbuffata eppure è ancora un film corrosivo, con un contenuto estremamente attuale. E con amarezza possiamo affermare che oggi il politicamente corretto e il digiuno culturale in cui viviamo lo rende un’opera di culto. Nel secolo scorso, paradossalmente, era più facile per un artista, un intelletuale non dare spiegazioni, esercitando la propria libertà creativa senza badare alle mode o alla dittatura del politically correct, costringendo il sistema ad accettare l’opera artistica.

Il cibo e La Grande Abbuffata: un’opera irripetibile

la grande abbuffata

Ugo Tognazzi nella “autogastrobiografia” del 1974 L’Inganno scriveva: “Voglio iniziare dicendo che La Grande Abbuffata è stata l’esperienza più differenziale, più esagerata e più fantastica che abbia mai avuto nel cinema. Non solo per l’atmosfera che è stata generata, ma anche per il simbolismo del film stesso. Senza dubbio, uno dei film più singolari mai girati in cui il cibo aveva un ruolo fondamentale del nostro lavoro di attori, tanto quanto la nostra performance era intrinsecamente legata al cibo. E forse, direttamente determinato da lei“.

La sceneggiatura di Rafael Azcona e i dialoghi di Francis Blanche raccontava di quattro amici che si avvicinavano alla morte tra piatti gourmet, vomito ed escrementi, in uno stato di trance surreale che non ammetteva vie di fuga. Il film fu girato seguendo il canovaccio, ma lasciando spazio all’improvvisazione degli attori. “Sarebbe impossibile replicare di nuovo. Entriamo in una competizione amichevole basata sul perfezionismo e sul disinteresse. Siamo arrivati a un punto in cui ognuno di noi si preoccupava più delle prestazioni dei nostri colleghi che delle nostre. Questo ci ha aiutato a superare le barriere che l’ego di un attore inevitabilmente erige“. Gli attori si sono trasformati in cuochi, sostituendo le parole con le ricette, dimostrando quanto cibo sia cultura.

La Grande Abbuffata un film da mangiare

Il nostro arrivo sul set è stato caratterizzato da aromi. Secondo gli odori che saturavano l’aria, sapevamo quale destino ci aspettava nella scena che stavamo per girare (…) A un certo punto, tutti quegli aromi provenienti dalla cucina hanno iniziato a diventare meno piacevoli e, nel tempo, sono diventati piuttosto nauseanti“, ricorda Tognazzi. Porzioni gigantesche di patè di anatra e cinghiale, cocktail di gamberi, insalata nizzarda, lasagne, borsch, maialino da latte al forno ripieno di castagne, purè di patate, faraona, cosciotto di agnello, dessert a forma di seno di donna decorato con crema bavarese o una ricetta di torta impastata sul sedere di una donna senza smettere di fare sesso.

Il cibo è protagonista del film perchè rappresenta in modo perfetto la ricerca del piacere, il desiderio di una vita epicurea, il superare ogni forma di controllo, di perbenismo e di limite. Lo chef, quello bravo, è quello che ha un unico dio: il piacere. Il cuoco dà godimento, senza interessarsi a chi. La sua creatività è al servizio della gioia. La cucina è un po’ come il sesso, non ha morale e non ha messaggi. Non deve giustificare nulla, deve solo esistere. E allora alziamo i calici e ringraziamo Marco Ferreri per aver girato un film che nessuno avrà più il coraggio di dirigere e famelicamente divoriamo la sua pellicola!

 

 

 

 

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Written by Monica Viani

Vivo a Milano, frequento librerie, musei, cinema, teatri e ...ristoranti! Laureata in filosofia, ex insegnante di materie umanistiche nei licei classici e scientifici milanesi, sono approdata nel 1998 al giornalismo enogastronomico. Dopo aver coordinato diverse riviste tecniche, aver dato vita a una collana e curato diversi libri, nel 2017 ho deciso con Alessandra Cioccarelli di fondare il blog Famelici, un blog "di frontiera", dove declinare il cibo in mille modi. Io e Ale scriviamo di cibo, rimandando a Marx, a Freud, a Nietzsche, ai futuristi, perché crediamo che il cibo sia cultura. Perché lo facciamo? Per dimostrare che si può parlare di food rifuggendo dalle banalità. Stay hungry, stay foolish!

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