Ultim’ora: l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha chiesto ai paesi di sospendere la vendita di animali vivi selvatici nei mercati alimentari per prevenire l’emergere di nuove malattie infettive. L’invito è contenuto nella nuova guida pubblicata il 12 aprile e redatta in collaborazione con l’Organizzazione mondiale della sanità animale (OIE) e il Programma delle Nazioni unite per l’ambiente (UNEP).
OMS, OIE e UNEP forniscono finalmente una guida per la sicurezza alimentare, raccomandando alcune misure che i governi nazionali dovrebbero assumere per ridurre il rischio del diffondersi di malattie come il Covid 19 nei mercati. Così si invita a rafforzare gli standard di igiene e di servizi igienico-sanitari nei mercati alimentari tradizionali, si chiedono norme più severe per un controllo dell’allevamento e della vendita di animali selvatici utilizzati per il consumo umano.
Che cosa sono i wet market, ovvero i “mercati umidi”? Mercati dove si vendono animali selvatici, spesso vivi, e macellati al momento. Secondo alcuni scienziati il Covid-19 potrebbe essere nato proprio lì, in particolare nel mercato all’ingrosso di frutti di mare di Wuhan, nella provincia cinese di Hubei. Oggi da più parti se ne chiede la chiusura. Non è solo un problema sanitario, ma anche una problematica che riguarda il rapporto tra cibo e cultura.
E se la Cina cominciasse a seguire le norme sanitarie? Le difficoltà culturali
Il Manifesto qualche settimana fa ha tradotto un articolo del quotidiano indipendente El Diario firmato da Ángel Luis Lara, sceneggiatore ed esperto di cinema. Il titolo dell’articolo già invita alla lettura: Non torniamo alla normalità. La normalità è il problema.
Secondo l’articolo, uno studio pubblicato sulla rivista Nature ha chiarito che “l’allevamento industriale ha incrementato le possibilità di contatto tra la fauna selvatica e il bestiame, facendo esplodere il rischio di trasmissione di malattie originate da animali selvatici i cui habitat sono drammaticamente aggrediti dalla deforestazione“. Gli allevamenti intensivi hanno provocato negli ultimi anni una serie di malattie resistenti agli antibiotici, che hanno messo sul lastrico i piccoli allevatori e che hanno portato al diffondersi di malattie fino a ieri inesistenti.
La Cina – come racconta l’articolo tradotto da Il Manifesto – è il paese con più allevamenti al mondo “e concentra nel suo territorio il maggior numero di “landless systems” (sistemi senza terra), macro sfruttamento di allevamenti in cui si affollano migliaia di animali in spazi chiusi”.
L’eccessiva urbanizzazione favorisce il diffondersi di pandemie nate da una popolazione “di animali allevati quasi tre volte maggiore di quella di esseri umani”. Quando un virus fa il salto della specie e arriva all’uomo la pandemia diventa triste realtà.
La pericolosità dei welt market risiedono soprattutto in due fattori:
- coesistenza e possibile cross-contamination e/o salto di specie di animali di diversa provenienza, sia dal mare e dalla terra, sia tra quelli domestici e quelli selvatici;
- coesistenza di animali vivi ed animali morti.
Petizioni per fare chiudere i Wet Market: giusto o sbagliato?
Quando si è diffusa in Occidente la notizia che il Coronavirus poteva aver tratto origine dai Wet Market si sono subito iniziate le raccolte di firme, le petizioni per chiuderli. A fronte di ciò, l’Onu ha preso una posizione timida chiedendone solo una regolamentazione.
La paura di molti studiosi è quella che, se avvenisse una proibizione immediata sulle carni selvatiche, questa porterebbe alla nascita di un mercato nero incontrollabile.
Nonostante l’emergenza Coronavirus, impedire il commercio di animali selvatici in Cina non sembra facilissimo. Le radici culturali dell’uso cinese di fauna selvatica sono profonde: non solo è ritenuta, in alcune aree del paese, una prelibatezza alimentare trasformata in status symbol, ma è impiegata nella medicina tradizionale, nell’abbigliamento, per gli ornamenti e persino ricercata per addomesticarla.
E poi c’è l’altra grande verità, di cui pochi parlano: che cosa accadrebbe in Africa? Molte comunità rurali africane vivono della vendita di animali selvatici. Un divieto di tale commercio avrebbe come conseguenza una fonte di guadagno per milioni di persone che svilupperebbero commerci illegali.
Sorge spontanea poi una domanda: tutti d’accordo a chiudere i cinesi wet market, ma nemmeno una parola sugli allevamenti intensivi complici di un eccessivo inquinamento? Forse è giunto il momento di chiedersi se non occorra rivedere i sistemi di allevamento e diminuire nelle nostre diete la presenza delle carni.
Chiediamoci qual è la situazione dei macelli in USA e in Europa. Qui gli animali sono spesso tenuti in spazi ristretti all’interno di strutture con scarsa ventilazione e sviluppano malattie dannose per gli uomini.
Considerazioni fameliche
I rischi della zoonosi in ambienti non controllati sono noti da tempo, la comunità scientifica ne aveva già parlato quando si sono diffusi altri virus come Ebola e Nipah. Il problema va affrontato, non solo con divieti che difficilmente sarebbero accettati dalle popolazioni. Forse è giunto il tempo di avviare una rivoluzione culturale senza dimenticare di affrontare la difficile situazione economica in Africa.
Credit Photo: Adli Wahid
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